Quasi nessuna di queste sentenze ha denominato mobbing il comportamento dei datori di lavoro.
Ciò da un lato dimostra che anche senza una particolare codificazione del fenomeno una tutela è già apprestata, dall’altro che una codificazione normativa del mobbing (in quanto categoria fenomenica e socio-giuridica) è forse meno importante di una più chiara presa di coscienza sociale del fenomeno; onde meglio inquadrare come contrari al lavoratore una serie di comportamenti sistematici che hanno comunque conseguenze, se non finalità, vessatorie e lesive della sua integrità psico-fisica e della sua dignità.
• corte di cassazione sent. n.475 del 1999 ha statuito che: un comportamento, anche astrattamente lecito, del datore di lavoro diventa illegale, e quindi risarcibile, ove nasconda un intento persecutorio.
• corte di cassazione sent. n.8267/97 ha statuito che il datore di lavoro è responsabile ex art. 2087 c.c. ove i lavoratori subiscano una compromissione della salute a causa di un eccessivo impegno sul lavoro, nella misura in cui la ricerca di maggiori livelli di competitività produttiva non può compromettere l’integrità psico-fisica dei lavoratori. Di conseguenza il datore di lavoro ha il dovere di adottare un organico di personale adeguato al volume produttivo della sua azienda.
• corte di cassazione sent. n.1307/00 ha statuito che rientrano nella responsabilità contrattuale del datore di lavoro, per cd. danno biologico, tutte le lesioni arrecate all’integrità psico-fisica dei lavoratori da un eccessivo e continuativo carico di lavoro straordinario; si pensi, ad esempio, al lavoro riconducibile ad una deliberata mancata integrazione dell’organico necessario da parte dell’imprenditore.
• corte di cassazione sent. n.3147/99 ha stabilito che il lavoratore che abbia subito un licenziamento ingiusto, per esempio con accuse false sul suo comportamento, ha diritto non solo alla reintegrazione nel posto di lavoro, ma anche ad un risarcimento per il danno arrecato alla sua reputazione.
• corte di cassazione sent. n.5491/02-05-00 ha anzitutto ribadito che, ove si controverta i materia di danno biologico, la norma di riferimento deve essere l’art. 2087 c.c. e non l’art. 2043 (che obbliga l’autore di un fatto ingiusto al risarcimento del danno); confermando così, in sostanza, che è la società datrice di lavoro a doversi discolpare e non invece il lavoratore a provare l’esistenza del fatto.
D’altra parte la Corte ha ribadito che è comunque il dipendente ad avere l’onere di provare l’esistenza di un nesso causale tra il comportamento del datore e l’insorgere di un pregiudizio alla sua salute.
FONTE: www.sindacatonazionale.com
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MOBBING: TUTELA IN SEDE PENALE
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