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MOBBING: TUTELA IN SEDE PENALE |
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4/1/2007 19:21 Da VERONA
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MOBBING: TUTELA IN SEDE PENALE
Come abbiamo già detto, nel nostro ordinamento non vi sono norme penali che sanzionano atteggiamenti di vessazione morale o di dequalificazione professionale in quanto tali. Proprio le difficoltà che l’interprete incontra nell’individuare, nell’attuale normativa, un’efficace tutela penale a favore della vittima di mobbing, hanno determinato il proliferare di nuove proposte anche in sede legislativa. Pur nella consapevolezza della difficoltà di stabilire con precisione le fattispecie concrete degli atti e dei comportamenti attraverso i quali si verificherebbero la violenza e la persecuzione psicologica ai danni dei lavoratori; è evidente che il mobbing in quanto tale, può e deve avere autonoma rilevanza penale e trovare sanzione nell’ambito di una normativa non limitata al risarcimento del danno davanti al giudica del lavoro.Nella vigenza delle norme attuali, sono le singole figure di reato ad essere sussunte dall’interprete, allorché si determina l’insorgere di un procedimento per tali figure delittuose, nell’ambito del fenomeno mobbing.A parte i casi di ingiuria (offesa all’onore e al decoro) o di diffamazione (offesa della reputazione resa pubblica) previsti dal codice penale e sanzionati come delitti contro l’onore, l’individuazione delle ipotesi di reato a carico del soggetto che pone in essere attività inquadrabili nel fenomeno del mobbing, si basa attualmente sugli effetti che tali azioni hanno sull’individuo che le subisce. Questo determina il fatto che la perseguibilità degli stessi (dagli abusi sessuali ai ricatti lavorativi qualificabili come vere e proprie estorsioni) passa solo attraverso l’attuale paradigma normativo delle specifiche figure di reati, prescindendosi dal contesto lavorativo nel quale tali episodi si verifichino. In base all’attuale normativa, fino a che non si dimostri in modo inequivocabile che il lavoratore mobbizzato si sia ammalato di mobbing, la tutela in ambito penalistico -nell’ambito del delitto di lesioni- non ha concreta praticabilità. Ove fosse stabilito che è stata danneggiata la sua salute fisica o psichica o entrambe, il primo passo da compiere è accertare se la lesione sia stata causata effettivamente dal mobbing, se cioè, esiste un nesso di casualità tra i comportamenti posti in essere nell’ambiente di lavoro e gli effetti subiti. E’ poi indispensabile accertare se la volontà del soggetto agente (il datore di lavoro o il collega) sia frutto di un dolo (si basa sulla coscienza e volontà della condotta e dell’evento offensivo)o di una colpa (si basa sulla coscienza e volontà della condotta ma non dell’evento, che si realizza invece per negligenza, imprudenza, imperizia o violazione di leggi, regolamenti, ordini o discipline specifiche). Tale verifica si fonderà innanzitutto sulla condotta del soggetto, ma anche sulle circostanze del fatto che hanno concorso all’azione criminosa, oltre che su altri elementi, quali le motivazioni dichiarate dal lavoratore stesso. Il risultato di queste verifiche potrà essere per esempio: l’eventuale connessione tra l’evento lesivo ed una attività di contrasto del lavoratore legata alla necessità dell’organizzazione aziendale (che venga ritenuta valida e legittima), per cui potrà emergere eventualmente un delitto colposo; oppure la rilevazione di un comportamento (dalle finalità preordinate e precise), ingiustificabile e non collegabile a valide scelte di organizzazione aziendale, tali per cui emergerà un reato doloso che, in quanto tale, sarà sanzionato più gravemente.Questi sono alcuni esempi, anche se dobbbiamo sempre tenere presente la specificità di ogni singolo caso. La vera difficoltà, tuttavia, di tale percorso di tutela del lavoratore è quella di riuscire a provare l’esistenza di una connessione tra molestia morale e l’insorgere di una malattia fisica o psichica. E’ quindi necessario definire il rapporto causale tra malattia contratta sul lavoro e la sua origine. La Medicina Legale definisce il rapporto causale, tra un evento patologico determinatosi e una causa in relazione con esso, unica ed efficiente, capace di produrre quel fenomeno patologico. Analizzando quindi i due elementi di questo ipotetico rapporto causale, così come richiesto dalla normativa attuale e dalle proposte di legge presentate alle Camere, si evince che essi sono fattori variabili, infatti:1. i comportamenti del datore di lavoro che si connotano per il contenuto vessatorio e per le finalità persecutorie possono variare da maltrattamenti verbali, alla svalutazione dei risultati ottenuti, ad impropri aumenti di carichi dai lavoro o ad esclusione da incarichi con la finalità di ottenere l’isolamento del lavoratore sgradito;2. le conseguenze dell’azione mobbizzante presentano altresì connotazioni e stadi variabili, dall’assenza di sintomi a disagi psichici, fino alla vera e propria malattia depressiva.Il rapporto causale pertanto, così come lo intende la legge attuale è, in caso di mobbing, moto difficilmente dimostrabile. Anzitutto perché la malattia psichica, seppur verificatasi, è per sua stessa definizione plurietiologica e riflette senza dubbio condizioni ambientali pluriconcorsuali. Il fenomeno del mobbing dovrebbe allora essere perseguito "in sé", quale reato di pericolo a produrre l’evento, cioè, come reato di pura condotta, e non tanto per gli effetti prodotti. Il legislatore dovrebbe mirare a punire il comportamento lesivo sul luogo di lavoro al di là del fatto che l’effetto dannoso si sia realmente prodotto. fonte: www.sindacatonazionale.com
Data invio: 5/12/2009 18:55
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