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NO A NUOVI ACCORDI PEGGIORATIVI DEL MODELLO CONTRATTUALE
Matricola
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20/1/2007 8:41
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Se a qualcuno pare che gli arretramenti subiti dalla classe lavoratrice in Italia negli ultimi vent’anni non siano stati abbastanza disastrosi, avrà modo di constare, nel corso dei mesi e degli anni prossimi, come sia sempre possibile fare di peggio. L’unità di Cgil Cisl e Uil sulle proposte di riforma del modello contrattuale, una sintonia quantomeno nefasta per obiettivi e conseguenze, fa il paio con la sua controfigura partitica nel partito democratico, e come tale ha la veste giusta per aprire la porta all’affossamento del contratto nazionale.

Nella piattaforma comune è chiaro il richiamo alla crescita di produttività e competitività dell’impresa come condizioni per l’aumento dei salari; di conseguenza si sancisce non solo che la partita degli aumenti salariali si gioca nel secondo livello di contrattazione, quello aziendale - o al massimo territoriale - ma che comunque per avere più salario bisognerà lavorare di più. Di fatto, quindi, significa non aumentare i salari. Ogni aumento eventuale non deve costare nulla all’impresa, ma deve anzi essere pre-coperto da un aumento di produttività.

Al contratto nazionale resterebbe la difesa dei salari dall’inflazione, con una variante creativa della tristemente nota “inflazione programmata”. Dovrebbe chiamarsi “inflazione realisticamente prevedibile”, agirebbe ogni tre anni anziché ogni due (diluendo ulteriormente gli aumenti), e quanto all’efficacia sarebbe degna discendente della precedente.

Quanto alla costruzione delle piattaforme contrattuali, sembra di capire che sarà sempre più una faccenda da vertici, senza una reale discussione fra i lavoratori. La detassazione degli straordinari renderebbe più conveniente per l’impresa far lavorare qualcuno in straordinario che nel normale orario, alla faccia delle 40 ore e delle conquiste in materia di orario di lavoro che sono costate lotte durissime al movimento dei lavoratori. Quanto all’occupazione, se lo straordinario costa meno perché mai assumere?

Pericoloso è il contenuto dell’accordo, pericoloso il contesto in cui nasce, pericoloso il clima che si respira in Cgil, pericolosa la poca attenzione che, almeno fino ad oggi, si dedica all’argomento sui posti di lavoro. Reduci come siamo dalla riforma dello Stato Sociale, fatta passare nel giro di pochi mesi con accordi di vertice, benedizione del Governo amico e tragicomico finale con referendum farsa, non dobbiamo perdere di vista la revisione della struttura della contrattazione, perché quello che si annuncia è perfino peggio di quanto era previsto negli accordi di luglio ’93. E siccome al peggio non c’è limite, e ogni conquista sul terreno salariale va strappata perché non sarà mai magnanimamente concessa, bisogna avere ben presente che - senza una resistenza cosciente e determinata – ogni riforma che verrà realizzata alzerà i livelli di sfruttamento e sfiorerà solo di passaggio i problemi del salario.

La Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI), un organismo che ha come azionisti 56 banche centrali, tra cui la Banca d’Italia, ha svolto di recente uno studio, che La Repubblica ha pubblicato il 3 maggio scorso. Non c’è bisogno di notare come sia abbastanza chiaro da che parte stia la BRI, e quanto sia improbabile che rappresenti una struttura sovversiva, avversa al sistema capitalistico. Quindi non dubitiamo della sua assoluta imparzialità nel fornire una serie di dati sulla spartizione delle quote di ricchezza tra salari e profitti, dei quali peraltro era facile accorgersi anche sulla base dell’esperienza quotidiana.

Secondo questi dati, nel 1983 la quota del PIL intascata dalla voce profitti era pari al 23,12 per cento, quella destinata ai salari raggiungeva il 76,88 per cento. Si trattava di una percentuale che si era mantenuta invariata rispetto al 1960, cioè prima del boom economico; il che significa che durante il boom economico la quota di ricchezza prodotta aveva continuato a dividersi tra salario e capitale più o meno nelle stesse proporzioni. L’allargamento della fetta del capitale comincia a metà degli anni ’80. Ma dopo il 1993 è un vero e proprio boom dei profitti: nel 1994 il capitale si mangia il 29 per cento del PIL, nel 1995 il 31 per cento. Nel 2001 si raggiunge la punta massima del 32,7 per cento, per poi scendere leggermente fino al 31,34 per cento del 2005. Lo studio della BRI si ferma qui, registrando fino al 2005 la perdita di 8,22 punti percentuali dei salari in favore dei profitti. In termini assoluti è una cifra enorme, perché l’8 per cento del PIL attuale ammonta a circa 120 miliardi di euro. Un fiume di denaro passato dalle tasche dei lavoratori a quelle dei capitalisti, qualcosa come 7.000 euro annui, 580 euro al mese in meno per 17 milioni di lavoratori dipendenti.

Se si considera l’entità di questo salasso, si capisce bene come abbiano agito gli accordi che nel 1992 privarono i lavoratori della scala mobile dei salari, che adeguava automaticamente il livello dei salari all’inflazione reale (non a quella programmata, e nemmeno a quella “realisticamente prevedibile”), e nel 1993 legarono appunto gli aumenti salariali all’inflazione programmata, introducendo il precariato, allargando il ruolo della contrattazione di secondo livello e degli aumenti connessi alla produttività. Allora i sindacati ci vennero a raccontare che si trattava di sconfiggere l’inflazione per portare l’Italia in Europa, che sarebbero state controllate le tariffe, che sarebbe stato possibile allargare la contrattazione, che si poteva ottenere ancora di più con gli accordi aziendali. A una quindicina di anni da allora, mentre l’unica merce il cui prezzo è sotto controllo – anzi fortemente in ribasso - è la forza lavoro, mentre il lavoro stesso è sempre meno tutelato e garantito, ci vengono a dire che se i salari non sono cresciuti è perché c’è troppo contratto nazionale, e l’unica possibilità è aumentare ancora il secondo livello.

Di sicuro c’è una cosa sola: non hanno saputo fare il loro lavoro. E, tra insipienza e incapacità, hanno rinunciato all’unica arma che avevano a disposizione, la forza organizzata della classe operaia. Le sconfitte hanno messo a dura prova le sue energie e le capacità di reazione, e oggi sono chiari i segni della sfiducia e di una drammatica debolezza collettiva. Ma non ci sono alternative: da lì bisogna ricominciare.
Rete 28 Aprile
Nella CGIL per la Democrazia e l'indipendanza sindacale.

Data invio: 16/6/2008 11:08
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