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Emergenza mobbingLe coordinate del problema SOMMARIO 1. Il mobbing come fatto divenuto rilevante per il diritto. Conseguenze personali e sociali del fenomeno e sue cause 2. La definizione di mobbing 3. I mezzi di protezione della vittima presenti nel vigente ordinamento normativo 4. La tutela penale ed i suoi limiti 5. La tutela civile5.1. l’azione civile di responsabilità e la tutela precedentemente alla nozione giurisprudenziale di mobbing5.2. Le sentenze di Torino e la successiva evoluzione in materia5.3. I caratteri e i tipi di azioni esperibili ed i relativi riflessi sulla prescrizione e la decadenza5.4. Problematiche processuali in tema di produzione e deduzione di prove. La gravità delle conseguenze della mancata prova 6. Il danno da mobbing 7. Le proposte in sede legislativa 8. Iniziative concrete e considerazioni conclusive 1. Il mobbing come fatto divenuto rilevante per il diritto. Conseguenze personali e sociali del fenomeno e sue cause Catalogabile tra i molteplici avvenimenti della realtà naturale, il fenomeno mobbing, drammaticamente manifestatosi soprattutto nella Pubblica Amministrazione, nel settore del credito e, in misura minore, nelle realtà industriali e commerciali del Paese (1), ha di recente assunto proporzioni tali da conquistarsi la dignità di fatto giuridico. Soltanto in Italia ad esempio (2) si ritiene che il numero di lavoratori vittime del mobbing si aggiri intorno ad un milione e mezzo, pari al 4% della forza lavoro, mentre sarebbero addirittura 5 milioni le persone comunque coinvolte nel fenomeno, in veste di spettatori, amici e familiari dei soggetti direttamente interessati. Secondo un sondaggio effettuato dalla Fondazione europea di Dublino per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, rispetto ad un campione di 21.500 lavoratori, è emerso addirittura che negli ultimi 12 mesi l’8% degli stessi e cioè circa 12 milioni di persone, ha subito il mobbing sul lavoro e nel dato statistico non sono compresi i casi per così dire "sommersi" (3). Invero, non ogni fatto naturale è, in quanto tale, giuridico ed, analogamente, non sempre vi è coincidenza tra interesse socialmente e giuridicamente rilevante (4). Nondimeno l’accresciuta importanza acquisita in ambito sociologico a causa delle notevoli conseguenze negative del fenomeno, inevitabilmente condiziona l’ordinamento nel processo di selezione degli interessi giuridicamente rilevanti e nella relativa tutela accordata ai soggetti titolari degli stessi (5). Il mobbing, in effetti, produce ingenti danni sia in campo individuale che sociale che non possono essere sottovalutati. Il soggetto passivo, ad esempio, ingiustamente colpito nelle sue personalità e dignità di uomo e lavoratore, spesso subisce significative perdite patrimoniali e comunque sempre si trova a vivere in uno stato di disagio psicofisico tale da generare gravi disturbi psicosomatici e da compromettere la stessa serenità del suo ambiente familiare (il cosiddetto doppio mobbing); la stessa ditta registra un notevole calo di produttività nei reparti interessati dal fenomeno che determina all’interno una vera e propria disgregazione del lavoro con dispersione e distruzione d’importanti risorse (6). Quanto ai fattori causali, sebbene il mobbing sia in un certo senso connaturato storicamente alla dinamica dei rapporti professionali e lavorativi organizzati (7), si è riscontrato (8) che le professioni ad elevato grado di tensione, l’aumento della competizione, la difficoltà per la generazione dei 40/50 enni ad adeguarsi alle mutate e vorticose trasformazioni tecnico - produttive e ad acquisire le necessarie competenze professionali, le carenze organizzative e soprattutto il timore di perdere il posto di lavoro aggravato dalla tendenza alla "flessibilità" dei rapporti, vicende tutte tipiche dell’attuale momento storico-politico, accrescono notevolmente la possibilità di mobbing e della connessa adozione della logica del "caprio espiatorio". Nel pubblico impiego, in particolare, la principale causa di crescita del fenomeno consiste nella poco meditata introduzione di logiche privatistiche nell’organizzazione e nell’operato dell’Amministrazione così come disposta dal decreto legislativo n. 29/1993 e dalle successive modifiche fino all’attuale decreto legislativo n. 30 marzo 2001, n. 165. A titolo di esempio si ricordano, nel settore sanitario, le conflittualità tra personale medico e paramedico e tra struttura apicale sanitaria e dirigenza generale ed in quello delle autonomie locali, le vessazioni nei confronti dei segretari comunali, situazioni entrambe favorite da norme che conferiscono poteri discrezionali contraddistinti dalla più ampia discrezionalità quali l’articolo 19 decreto legislativo n. 165/2001 in materia di incarico di una funzione dirigenziale a persona esterna all’Amministrazione da parte dell’organo politico e l’articolo 26 decreto legislativo n. 165/2001 in tema di nomina di primari di reparto effettuate dai Dirigenti del Servizio Sanitario Nazionale (9). Ne deriva l’evidente indefettibilità di un’indagine giuridica in materia quanto più adeguata ed appropriata. 2. La definizione di mobbing Ai fini della presente indagine costituisce condizione di procedibilità la distinzione e la definizione nelle sue varie accezioni, delle condotte riconducibili al mobbing rispetto a quelle che non lo sono in quanto appartenenti alla ordinaria dinamica imprenditoriale (10). Per individuare i fondamentali connotati della figura in esame è necessario muovere dalle acquisizioni raggiunte in psicologia, in medicina e in sociologia del lavoro perché si deve a queste discipline sia la definizione che lo stesso utilizzo del termine "mobbing" (11). D’altra parte le nozioni elaborate in sede dottrinale, giurisprudenziale e legislativa risentono grandemente dei traguardi raggiunti dalle suindicate discipline. Dal punto di vista etimologico, il termine mobbing trae origine sia dal verbo inglese "to mob", che indica le azioni di assaltare, aggredire in massa, assediare e dal derivato sostantivo "mob" significante folla in tumulto, moltitudine disordinata sia dal latino mobile vulgus inteso in senso dispregiativo come movimento della plebaglia (12). La scelta del sostantivo mobbing per descrivere il fenomeno in esame risulta molto appropriata perché evidenzia in modo diretto ed efficace la centralità del concetto di aggressione presente in questa fattispecie (13). La circostanza dell’impiego del medesimo vocabolo mobbing anche nel mondo animale per indicare il comportamento di aggressione del branco nei confronti di un animale o esemplare isolato (14) consente, a parere di chi scrive, di rappresentarsi anche visivamente l’intensità della violenza di simili condotte e la mancanza di umanità di coloro che le pongono in essere. Nella lingua italiana il mobbing è diventato sinomino di violenza nascosta e silenziosa, incidente sulla sfera psichica altrui ma non perciò meno invasiva e qualche volta anche peggiore di quella fisica (15). In ambito aziendale, il mobbing è una forma di violenza sul posto di lavoro consistente in comportamenti vessatori integranti un’aggressione sistematica, protratta per una certa durata di tempo, posta in essere o da un superiore gerarchico (cosiddetto bossing o mobbing verticale) o dai colleghi (mobbing orizzontale) nei confronti di un lavoratore, con chiari intenti discriminatori e persecutori, finalizzati all’estromissione di questi dall’azienda mediante la progressiva marginalizzazione del suo contributo al processo produttivo e l’emarginazione dalla collettività degli altri dipendenti (16). A ciò si aggiunga che nei casi di mobbing sia orizzontale che verticale, l’azione del mobber è spesso sostenuta dalla condotta tacitamente acquiescente dei colleghi, definiti "side mobbers" che, pur estranei all’attività discriminatoria, si astengono da qualsiasi collaborazione verso la vittima predestinata. In particolare, secondo la definizione di uno dei più autorevoli studiosi del fenomeno (17), il mobbing sul lavoro indica una "forma di terrorismo psicologico che implica un atteggiamento ostile e non etico posto in essere in forma sistematica - e non occasionale o episodica - da una o più persone eminentemente nei confronti di un solo individuo, il quale, a causa del mobbing, viene a trovarsi in una condizione indifesa e fatto oggetto di una serie di iniziative vessatorie e persecutorie. Queste iniziative devono ricorrere con una determinata frequenza (statisticamente: almeno una volta alla settimana) e nell’arco di un lungo periodo di tempo (statisticamente: almeno per sei mesi di durata). A causa dell’alta frequenza e della lunga durata del comportamento ostile, questa forma di maltrattamento determina considerevoli sofferenze mentali, psicosomatiche e sociali." Pertanto, secondo Leymann, il criterio distintivo tra conflitto temporaneo sul lavoro e mobbing consiste nella frequenza e durata del trattamento vessatorio e non già su "ciò" e sul "come" viene inflitto al lavoratore (18). Il mobbing si presenta, del resto, come una fattispecie a formazione progressiva (19) che si sviluppa secondo fasi predefinite, ovvero secondo quattro stadi successivi enucleati da Leymann del conflitto quotidiano, del terrore psicologico, degli errori ed abusi e dell’allontanamento definitivo dall’ambiente di lavoro con le dimissioni o il licenziamento della vittima (20). Con riferimento alla situazione italiana Ege ha addirittura individuato 6 fasi e cioè la condizione zero, il conflitto mirato, l’inizio del mobbing, i primi sintomi psico somatici, gli errori ed abusi dell’amministrazione del personale, il serio aggravamento della salute psicofisica della vittima e l’esclusione dal mondo del lavoro (21). Il mobbing inoltre, inteso come comunicazione conflittuale sul posto di lavoro (22) non presenta un’azione tipica perché può essere realizzato mediante qualunque condotta impropria che si manifesti attraverso comportamenti, parole, atti, gesti, scritti capaci di arrecare offesa alla personalità, alla dignità o all’integrità fisica o psichica di una persona, di metterne in pericolo l’impiego o di degradare il clima lavorativo (23). Per fini esclusivamente classificatori Leymann ha individuato 3 principali gruppi di comportamento realizzanti il mobbing e cioè quelli incidenti sulla comunicazione con la persona attaccata, sulla sua reputazione e sulla manipolazione della sua prestazione nell’attribuzione dei compiti (24) ma questa teoria ha un valore meramente indicativo attesa la molteplicità e varietà delle condotte, anche concorrenti, in concreto attuabili in vista dell’eliminazione del lavoratore. In dottrina sono rintracciabili tante definizioni ma sostanzialmente due opzioni si contendono il campo e cioè quella che concentra l’attenzione sulla problematica dei limiti del potere datoriale nei confronti del lavoratore e quella per così dire positivistica-descrittiva di aggressione sistematica posta in essere dal datore di lavoro con chiari intenti discriminatori tesi ad emarginare il lavoratore per le più disparate ragioni che è prevalente forse perché facilita il riconoscimento delle condotte vietate (25). In giurisprudenza e in sede di progetti legislativi parimenti si è preferito il ricorso ad una nozione positivistica di mobbing. In particolare, in giurisprudenza, il mobbing ha fatto ingresso nel mondo giuridico (26) come fatto notorio ex articolo 115 c.p.c., comma 2, rinviandone l’individuazione all’interno degli studi effettuati, in particolare in ambito psicologico, medico e sociologico quale grave e reiterata distorsione all’interno dell’organizzazione del lavoro in grado di incidere pesantemente sulla salute individuale" (27). Anche in successive pronunce la giurisprudenza (28) ha confermato la sua scelta ed anzi ha fornito chiarimenti in ordine alla collettività delle condotte e al dolo specifico. Analoghe considerazioni valgono per i progetti elaborati in sede legislativa, sia essa statale (29) sia regionale (30) tutti caratterizzati dal riferimento alla violenza morale e alla persecuzione psicologica reiterata nel tempo, posta in essere dal datore di lavoro o da altri colleghi, teleologicamente orientata, accompagnata talvolta da una specifica e dettagliata elencazione di alcune condotte riconducibili al mobbing (31). In effetti al vocabolo mobbing va riconosciuta l’importanza di unificare, in modo sintetico ed in una categoria a sé stante, una serie di comportamenti diversi, accomunati dalla modalità aggressiva e vessatoria e dalla finalità di esclusione di uno o più dipendenti (32). Per quanto riguarda, infine, l’individuazione del soggetto a rischio mobbing, si dà atto dell’impossibilità di addivenire ad una tipicizzazione in assoluto dello stesso anche se recenti ricerche hanno evidenziato una maggiore incidenza nella quattro grosse categorie dei "creativi", degli "onesti", dei "disabili" e dei "superflui" (33). Come emerso da dati empirici (34), chiunque, nei vari momenti della vita e in forme diverse, può essere coinvolto in episodi di mobbing né hanno particolare rilevanza il sesso (sebbene gli uomini siano più restii a chiedere aiuto all’esterno), l’età, il livello d’istruzione, o il settore interessato atteso che l’apparente maggiore incidenza nell’ambito della pubblica amministrazione deriva probabilmente dal minor timore di denunciare il fenomeno nel settore pubblico. Di fatto, comunque, si è accertato che spesso i mobbizzati sono in origine persone eccezionali, estremamente sensibili e fuori del comune, che finiscono per rinchiudersi in un guscio di passività e di demotivazione particolarmente gravi in termini di salute psichica. 3. I mezzi di protezione della vittima presenti nel vigente ordinamento normativo Enucleata la nozione di mobbing e preso atto della varietà delle condotte ad esso riconducibili, è necessario individuare gli strumenti predisposti dall’ordinamento a garanzia del diritto del lavoratore a non essere mobbizzato (35), in assenza di una specifica disciplina legislativa e di prese di posizione da parte della contrattazione collettiva. Si tratta, in particolare, di rintracciare una disciplina giuridica che soddisfi, nel contempo, l’esigenza di tutelare il lavoratore e di risarcirne i danni subiti in conseguenza delle vessazioni sul lavoro con quella di prevenire e punire simili condotte (36). Un primo dato rassicurante è costituito dal fatto che, comunque, anche nel perdurante silenzio legislativo, il lavoratore mobbizzato non risulta completamente privo di tutele. E ciò in quanto l’ordinamento ha già predisposto mezzi di protezione nei confronti di alcuni dei comportamenti ascrivibili al mobbing. Invero, un ruolo decisivo in tal senso è stato svolto dalla giurisprudenza che ha elaborato, utilizzando principi e norme appartenenti a molteplici rami del diritto, ricostruzioni giuridiche per la tutela del lavoratore "mobbizzato" (37). Del resto, ogni condotta configurante il mobbing, risolvendosi in ingiusta lesione della sfera privata della vittima, costituisce, in linea di principio un comportamento rilevante per il diritto perché coinvolge sia l’ambito lavorativo che quello personale. In particolare, la stessa cd atipicità delle condotte integranti il mobbing ha indotto la giurisprudenza a combinare le norme cardine di tutela individuate in sede civile, alle quali sarà dedicata specifica trattazione, con disposizioni internazionali (vedi ad esempio i richiami alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo di New York del 10 dicembre 1948, alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950 ed in ambito comunitario alla Carta Comunitaria dei diritti fondamentali di Strasburgo del 9 dicembre 1989 o ai principi della Risoluzione del Parlamento sul rispetto dei diritti dell’uomo nell’Unione Europea del 1997), con precetti costituzionali (ad esempio l’articolo 2 in tema di diritti inviolabili dell’uomo, l’articolo 4 e 35, 1 e 2 comma relativi al diritto al lavoro, l’articolo 13 in materia di libertà personale, l’articolo 32 riguardante il diritto alla salute) con normative specifiche di settore quali l’articolo 15 dello Statuto dei lavoratori, le leggi n. 903/1977 e n. 125/1991 a tutela della condizione femminile nonché norme di natura penale (38).Ne è conseguito un interessante ed articolato impianto normativo dove "il gioco dei combinati disposti delle singole norme richiamate" garantisce una duttile disciplina, adeguata alle molteplici modalità concrete di attuazione delle condotte persecutorie e alla rilevanza dei beni giuridici nella specie lesi. Pertanto, allo stato attuale, la vittima di mobbing, come si illustrerà diffusamente, può invocare tutela sia in sede civile che penale. 4. La tutela penale ed i suoi limiti Considerato il riconoscimento costituzionale dei beni lesi, indubbia è la rilevanza penale di molteplici comportamenti integranti il mobbing. In effetti, molti di essi, come acutamente osservato (39) possono essere penalmente sanzionati se riletti in relazione all’evento cioè alle conseguenze psicofisiche in capo alla vittima o con riferimento alla condotta perché alcuni comportamenti sono già stati tipicizzati dal legislatore penale o, ancora, alla luce di una serie di principi formulati, per settori particolari affini alla tematica in questione, dalla giurisprudenza di legittimità in tema di nesso di causalità tra condotta ed evento. In tal senso si evidenziano la teorica applicabilità ai casi di specie dell’articolo 582 c.p. (lesione personale), eventualmente aggravato ex articolo 577 c.p. comma 1, n. 3 e n. 4, dell’articolo 590 c.p. (lesioni personali colpose), dell’articolo 586 c.p. (morte o lesioni come conseguenza di altro delitto) che risulta quanto mai confacente per perseguire i casi di mobbing realizzati mediante ripetuti comportamenti vessatori che già in sé integrano una figura di delitto punito a titolo di dolo, degli articoli 594 e 595 c.p. (ingiuria e diffamazione) in caso di espressioni denigratorie non necessarie, dell’articolo 323 c.p. (abuso d’ufficio) e 328 c.p. (omissione atti d’ufficio), dell’articolo 610 c.p. (violenza privata), dell’articolo 660 c.p. (molestia o disturbo alle persone), dell’articolo 572 c.p. (maltrattamenti) (40) che sta assumendo un ruolo preminente nell’azione giudiziaria contro le vessazioni sul luogo di lavoro, delle molestie sessuali, dell’articolo 40 c.p. con la conseguente responsabilità per il datore di lavoro e per il medico competente ex articolo 17 legge n. 626/1994, dell’articolo 35 legge n. 675/1996 per il trattamento illecito di dati personali, dello Statuto dei lavoratori, dell’aggravante prevista dall’articolo 61, n. 11 c.p. (41); la riconducibilità della malattia da mobbing alla generale categoria della malattia professionale ex D.P.R. n. 30 giugno 1965, n 1124; la possibilità di comminare la sanzione accessoria della pubblicazione della sentenza di condanna ai danni del "mobber" e, da ultimo, l’opportunità per il danneggiato, di costituirsi parte civile nei relativi processi penali. Nondimeno, in sede applicativa, una serie di problematiche si pongono all’interesse dell’interprete quali ad esempio quella della valutazione dell’elemento soggettivo della fattispecie (42) in relazione ai reati di lesione (o nel peggiore dei casi di omicidio), decisiva in punto prescrizione e regime di procedibilità, che richiama la più generale questione relativa al rapporto tra dolo eventuale e colpa cosciente (43) o ancora quella di chiarire, relativamente al nesso causale, le condizioni in virtù delle quali il verificarsi di una malattia o lesione oggettivamente riscontrata possa essere valutata come conseguenza dell’esposizione ad agenti nocivi sul luogo di lavoro che nel caso di specie si identificano nelle condotte di persecuzione e/o vessazione (44). Riguardo a tale ultimo aspetto è evidente che non ci si può limitare al ricorso alla condicio sine qua non o ad una rigorosa applicazione di leggi universali ma piuttosto è opportuno riferirsi a leggi statistiche di settore. E ciò perché in caso di mobbing le tematiche del rapporto di causalità ex articolo 40 c.p. e del concorso di cause ex articolo 41 c.p. assumono connotati particolari a causa della necessità di confrontarsi con la psiche umana intesa come "meccanismo in grado di trasformare sollecitazioni negative ricevute in ambito professionale in patologie oggettivamente rilevabili" (45). In materia di concorso di cause è, tuttavia, rassicurante il dictum giurisprudenziale secondo cui, ai fini dell’accertamento del rapporto di causalità, "la causa sopravvenuta sufficiente da sola alla produzione dell’evento e, quindi, avente efficacia interruttiva del nesso di causalità, è quella del tutto indipendente dal fatto posto in essere dall’agente, avulsa totalmente dalla sua condotta ed operante in assoluta autonomia, in modo da sfuggire al controllo e alla prevedibilità dell’agente medesimo. Tale non può considerarsi la causa sopravvenuta legata a quella preesistente da un nesso di interdipendenza; in tal caso, le cause concorrenti che non siano da sole sufficienti a determinare l’evento per il necessario porsi della prima come condizione necessaria antecedente, sono tutte e ciascuna causa dell’evento, in base al principio (accolto dal nostro legislatore) della causalità materiale fondato sull’equivalenza delle condizioni" (46). è, invero, particolarmente arduo accertare in termini oggettivi le reazioni dato che ogni individuo potrebbe comportarsi diversamente nonostante l’identità di sollecitazioni o ancora stimare l’influenza di altre variabili in ordine all’origine o al peggioramento di alcune patologie. Riguardo, infine, all’obiezione secondo la quale molte condotte di mobbing, benchè gravi, rimarrebbero sprovviste di tutela penale, si ritiene che la proposta espressa anche in un disegno di legge (47) di creare una fattispecie penale ad hoc, recante una condotta descritta con formule aperte ed in certo modo indeterminate, non sia auspicabile perché in contrasto, oltre che con il precetto di tassatività, con i principi di sussidiarietà e meritevolezza (48) della pena in virtù dei quali il ricorso alla sanzione penale deve essere un’extrema ratio, cioè essere circoscritto alle sole ipotesi in cui l’utilizzo di altre sanzioni in ambito civile, amministrativo o di altra natura si appalesi inadeguato a ripristinare la situazione preesistente e/o a dissuadere i consociati dall’applicazione della norma (49). Nel caso in esame, tra l’altro, queste situazioni possono comunque essere adeguatamente protette mediante l’utilizzo dell’atipica e generale norma di tutela codificata all’articolo 2043 c.c. (50). 5. La tutela civile 5.1. L’azione civile di responsabilità e la tutela precedentemente alla nozione giurisprudenziale di mobbing Sebbene la sanzione penale connoti l’interesse tutelato di rilevanza pubblicistica, da sempre il lavoratore e, segnatamente, il mobbizzato, si sente autenticamente tutelato solo se può avvalersi di una diretta ed efficace azione civile avverso il datore di lavoro e/o eventuali colleghi "mobbers". Ad un’attenta disamina ci si avvede che gli effetti della condotte di mobbing possono assumere rilevanza civilistica sotto due profili e cioè risarcitorio alla stregua degli articoli 2087, 1218 e 2043 c.c. e riparatorio/ ripristinatorio ex lege n 300/1970 con possibilità di riassunzione del lavoratore o, in alternativa, di ricostruzione della posizione aziendale di questi (51). Si deve, inoltre, alla giurisprudenza il riconoscimento di una tutela inibitoria a fronte ad esempio di atti integranti il mobbing (vedi la dequalificazione del lavoratore) mediante il provvedimento d’urgenza ex articolo 700 c.p.c. che, da mezzo eccezionale e residuale, si è spesso trasformato in strumento di tutela alternativa rispetto a dinieghi di giustizia causati dalla consistente lentezza dei giudizi ordinari (52). Riguardo al 700 c.p.c. occorre brevemente precisare che la natura strumentale ed anticipatoria di questo non autorizza ad affermare l’esistenza di un potere cautelare generale devoluto all’imperio discrezionale del giudice (53): spetta al ricorrente, in specie al mobbizzato, affermare e specificare sia il diritto sia "il tipo" di provvedimento di tutela che egli propone di domandare al giudice del merito. Ne segue che il giudice della cautela ha poteri limitatamente discrezionali circoscritti all’interpretazione della domanda o alla "specificazione attuativa" della forma di tutela cautelare (laddove è richiesta in termini generici) adattando alle circostanze variabili del caso concreto la scelta delle modalità più idonee ad anticipare gli effetti della futura decisione di merito (54). Invero, secondo una ricostruzione giurisprudenziale consolidata in materia (55) norme cardine di riferimento sono individuate nell’articolo 2087 c.c. (che afferma la responsabilità contrattuale del datore di lavoro) e/o nell’articolo 2043 c.c. (ne che fissa per contro la responsabilità extracontrattuale) nonché negli articoli 1175 e 1375 c.c. (principi di correttezza e di buona fede) in combinato disposto con norme di fonte costituzionale quali l’articolo 32 e l’articolo 41, comma 2, Costituzione che motivano, in un certo modo, la stigmatizzazione negativa delle condotte in esame. Sebbene allo stato attuale sia pacificamente ammessa la possibilità d’invocare il concorso delle due responsabilità, contrattuale ed extracontrattuale e addirittura di entrambe insieme a quella penale, va rilevato che, in origine, i danni da mobbing, concretizzando una lesione del diritto soggettivo primario della salute, erano risarciti in quanto ingiusti ex articolo 2043 c.c. In questo senso si ricorda la ricca casistica giurisprudenziale relativa a lavoratori pregiudicati da demansionamento o dequalificazione professionale, la quale ha legittimato in via interpretativa la tutela anche rispetto a pratiche "assimilabili al mobbing" di natura extracontrattuale (56). Successivamente, nella prospettiva di un effettivo riconoscimento della centralità nel vigente sistema statale, della tutela della persona e delle condizioni psicofisiche dei lavoratori, la prevalente giurisprudenza ha affermato la natura contrattuale della responsabilità per i danni procurati con il richiamo all’articolo 2087 c.c. che così dispone: "l’imprenditore è tenuto ad adottare, nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro". La norma configura in capo al datore di lavoro l’autonomo e peculiare obbligo di protezione della persona del lavoratore, avente un contenuto di così ampia portata da includere non solo l’adozione delle misure richieste dalla legge, dall’esperienza e dalle conoscenze tecniche ma anche la predisposizione di tutte le misure generiche di prudenza e di diligenza necessarie per la tutela dell’incolumità ed integrità psico-fisica del lavoratore (57). La protezione del lavoratore investe, altresì, non solo il profilo dell’integrità psicofisica ma anche quello della personalità morale o sociale (58) affinchè, in fase d’esecuzione del rapporto, il prestatore di lavoro non sia costretto a scambiare ed alienare i propri diritti personalissimi in luogo dell’energia e della forza lavoro (59). Sulla base di tanto, il datore di lavoro deve non solo astenersi dal porre in essere comportamenti lesivi dell’integrità fisica e della personalità morale del dipendente (responsabilità diretta) ma anche prevenire ed eventualmente punire simili atti da chiunque realizzati nel contesto dell’attività lavorativa, anche mediante l’impiego del potere disciplinare (responsabilità indiretta ex articolo 2049 c.c. e ruolo di garante ex articolo 40 c.p.). Per tutte le suesposte argomentazioni, la giurisprudenza correttamente ritiene l’articolo 2087 c.c. "una norma di chiusura, volta a ricomprendere ipotesi e situazioni non espressamente previste ... che, "come del resto tutte le clausole generali, ha una funzione di adeguamento permanente del sistema alla sottostante realtà socio-economica, con una dinamicità ben più accentuata di quella dell’ordinamento giuridico, legato a procedimenti e schemi di produzione giuridica necessariamente complessi e lenti (60). Come acutamente osservato (61), inoltre, l’obbligo di prevenzione ex articolo 2087 c.c. s’innesta automaticamente nel contenuto del rapporto di lavoro al momento della conclusione del contratto perché integrativo e/o specificativo degli ordinari obblighi di correttezza e di buona fede ex articolo 1175 e 1375 c.c. Ne segue che il lavoratore vanta un autentico diritto soggettivo cui corrisponde l’obbligo di sicurezza da parte del datore di lavoro per cui la sicurezza diviene un’obbligazione accessoria rispetto alla principale (62). Significativa, a parere di chi scrive,è l’affermazione che in qualche modo sintetizza l’evoluzione giurisprudenziale in materia, secondo la quale il principio del neminen laedere ex articolo 2043 c.c. si è concretizzato o meglio specificato in un’autonoma obbligazione contrattuale (63). Il riconoscimento della natura contrattuale della responsabilità per danni da mobbing non va sottovalutato, considerate le notevoli implicazioni di natura pratica che comporta, alle quali sarà dedicata specifica trattazione. Ciononostante, il connotato peculiare della cd fase pre-mobbing non si identifica nella mancanza di strumentazione giuridica per combattere le condotte vietate avverso le quali si riscontra in giurisprudenza l’utilizzo degli articoli 2043 c.c., 2087 nonché dell’articolo 2103 c.c. (64) quanto piuttosto in un approccio di carattere frammentario, diretto a colpire più o meno incisivamente alcune gravi degenerazioni del fenomeno (65). In effetti da una valutazione mirata dei dicta giurisprudenziali precedenti all’enucleazione della nozione di mobbing emerge che ampia tutela è stata predisposta avverso il demansionamento o la dequalificazione professionale alla luce del combinato disposto degli articoli 2103 c.c. e 2087 c.c. (66), contro le dimissioni frutto di coartazione (67), contro l’esercizio illegittimo del potere autoritativo del datore di lavoro (68), contro comportamenti persecutori o discriminatori quali ad esempio l’ingiustificata ripetuta richiesta di visite mediche di controllo e l’abuso di controlli della malattia da parte del lavoratore (69), contro il trasferimento ingiustificato, la minaccia di licenziamento (70), l’applicazione reiterata ed immotivata di sanzioni disciplinari (71), l’impiego eccessivo del lavoratore (cosiddetto surmenage lavorativo) (72) contro le violenze e le molestie sessuali da parte del datore di lavoro o dei colleghi nei confronti della vittima (73). Il lavoro giurisprudenziale, nella fase pre-mobbing, è stato indubbiamente casistico, non scevro dai limiti tipici di questa impostazione quali l’impossibilità per i giudici di valutare, adeguatamente la gravità delle condotte realizzate dai mobbizzanti con gravi ripercussioni sulle operazioni di accertamento dell’an e del quantum debeatur ed il mancato perseguimento di comportamenti apparentemente neutrali, dotati invece di efficacia causale rispetto all’intera strategia che richiama alla mente il penalistico medesimo disegno criminoso tipico del reato continuato. Malgrado ciò, occorre sottolineare che notevole è l’importanza dei risultati acquisiti perché quei precedenti non hanno assolutamente perduto di validità ma anzi si prestano ad essere proficuamente riutilizzati alla luce della recente nozione di mobbing che di essi è l’illuminata sintesi. 5.2. Le sentenze di Torino e la successiva evoluzione in materia Con le sentenze di Torino Erriquez c. Ergom Materie Plastiche S.p.a. Trib. Torino 16 novembre 1999 e Stormeo c. Ziliani S.p.a. Trib. Torino 30 dicembre 1999 l’evoluzione giurisprudenziale in materia raggiunge il suo più felice e rivoluzionario esito consistente nella valutazione del mobbing come categoria unitaria, come "framework" (74) ossia cornice all’interno della quale trovano la giusta collocazione le molteplici ed atipiche condotte nelle quali si manifesta il fenomeno (75). Ai fini della presente indagine è importante soffermarsi su alcuni punti qualificanti dell’iter logico - argomentativo seguito dai giudici per valutare, poi, la successiva evoluzione della giurisprudenza in proposito. Innanzitutto è estremamente significativo il richiamo al fatto notorio ex articolo 115 c.p.c. (76) perché mediante questo i giudici hanno affermato che la nozione di mobbing "fa parte del bagaglio di conoscenza di ogni uomo di media cultura in un certo luogo ed in un certo momento storico senza necessità di ricorso a particolari informazioni o giudizi tecnici" (77), che "esso ha una distinta identità storica che si impone all’osservazione o alla percezione della collettività…sicché al giudice non resta che constatarne gli effetti e valutarlo ai fini delle conseguenze giuridiche" (78) e che, infine, "il fatto è percepito dalla collettività indubitabile ed incontestabile" (79) per cui risulta legittima la deroga ai principi del dispositivo e del contraddittorio (80). Atteso che il giudice del merito vanta un’insindacabile potere discrezionale nel ritenere di comune esperienza determinate nozioni e di utilizzarle sia come elementi di prova sia come criteri di paragone nella valutazione di attendibilità e di rilevanza degli altri elementi probatori (81) e che l’unico limite è rappresentato dalla necessità che il fatto sia allegato (82), requisito nel caso in esame soddisfatto (83), emerge con tutta evidenza la volontà di prendere una precisa posizione in materia. Ne è prova l’apposito paragrafo dedicato al mobbing, il rinvio, per la sua individuazione, agli studi effettuati in ambito psicologico, medico e sociologico, l’indicazione all’interprete di criteri guida per l’accertamento della fattispecie tra i quali riveste un ruolo decisivo l’indagine circa la sussistenza di un intento persecutorio ovvero di una finalizzazione ad un unico deprecabile obiettivo e la ripetitività delle condotte (84). In entrambe le sentenze, inoltre, si assiste all’affermazione di un nuovo sistema fondato prevalentemente sull’articolo 2087 c.c. nell’ambito del quale possono confluire, ma non necessariamente, le tutele predisposte per il lavoratore da altre norme più specifiche (85). Pertanto, secondo l’opzione giurisprudenziale, per invocare tutela contro il mobbing non è più necessario allegare e provare la variazione in peius di mansioni lavorative perché qualunque condotta aggressiva, teleologicamente orientata, è ritenuta condizione sufficiente per integrare la fattispecie. Riguardo alla successiva evoluzione giurisprudenziale in materia se ne evidenzia la sostanziale continuità nella direzione di chiarire e delimitare i connotati della fattispecie pur in presenza di alcuni interessanti elementi di novità. E ciò, probabilmente, non solo al circoscritto fine di fornire criteri di riferimento per i colleghi giudici ma anche per supplire al mancato riconoscimento legislativo espresso. Anzitutto si riscontra in giurisprudenza maggiore equilibrio e razionalità nell’affrontare la problematica in esame tanto che per l’accertamento della sussistenza del mobbing si ritiene necessario acquisire una consulenza tecnica sul punto (86). In una recente sentenza (87) inoltre, si specifica che: "il mobbing aziendale è collettivo e comprende l’insieme di atti ciascuno dei quali è formalmente legittimo ed apparentemente inoffensivo. Sotto l’aspetto soggettivo il mobbing deve contenere il dolo nell’accezione di volontà di nuocere o infastidire o svilire un compagno di lavoro. La fattispecie è, altresì, caratterizzata dal dolo specifico volto all’allontamento del mobbizzato dall’impresa". In merito il giudice, nel confermare la funzione di concetto contenitore assolta dal termine mobbing (88) ha, però, avvertito la necessità di evidenziare sia la natura collettiva del fenomeno, requisito non richiesto in occasione della sentenza del Tribunale di Torino del 16 novembre 1999, argomentando dal significato etimologico e dal progetto di legge n. 6410 del 30 settembre 1999 sia il distinguo rispetto alle molestie quasi per liberarsi dal vincolo secondo cui le molestie penalmente rilevanti dovevano automaticamente considerarsi persecutorie e per ciò espressione di mobbing. Meno felice risulta il riferimento al dolo programmato, quanto meno in via esclusiva perché l’aprioristica esclusione della sussistenza di mobbing laddove le condotte sono realizzate spontaneamente, ma non sfornite di lesività intrinseca (89) potrebbe costituire, a parere di chi scrive, un grave handicap per la difesa dal mobbing. Conformi all’orientamento giurisprudenziale precedente e alle elaborazioni dottrinali sono, invece, la distinzione delle fattispecie in base al ruolo ricoperto dal/i mobber/s all’interno dell’azienda ed il regime di responsabilità incentrato sull’articolo 2087 c.c. (90) dei quali pertanto è confermata la validità. 5.3. I caratteri ed i tipi di azioni esperibili ed i relativi riflessi sulla prescrizione e la competenza Enunciato il "carnet" di azioni a disposizione del lavoratore mobbizzato, è opportuno vagliarne i caratteri e le relative problematiche processuali. è preliminarmente opportuno osservare che non è indifferente per il mobbizzato il ricorso all’azione contratttuale rispetto a quella extracontrattuale. Al riguardo si richiamano le incisive differenze enucleate in dottrina (91) secondo cui la responsabilità contrattuale presuppone la capacità d’agire, è soggetta a prescrizione ordinaria (10 anni) e comporta per l’attore di provare solo il fatto (92) ed il danno, poiché la colpa si presume mentre quella extracontrattuale richiede la mera capacità naturale (articolo 2046), soggiace al regime delle prescrizioni brevi (5 anni ex articolo 2947 c.c.), impone all’attore la triplice prova del fatto, del nesso di causalità e della colpa e consente la richiesta del risarcimento anche dei danni imprevedibili (argomentando ex articolo 2056 c.c. riferito agli articoli 1223, 1226 e 1227 c.c.). Ne deriva che la responsabilità contrattuale prospetta un regime ben più favorevole per il lavoratore anche se in alcuni casi la piena tutela può essere assicurata dall’impiego di entrambe (93). Nel caso di azione intentata nei confronti del datore di lavoro mobber ad esempio (94). l’utilizzo della sola azione contrattuale può rappresentare un limite alla risarcibilità del danno morale giusta l’articolo 2059 c.c. e parimenti la richiesta prevedibilità del danno ex articolo 1225 c.c. potrebbe di fatto influire sulla determinazione del relativo quantum, sebbene di recente la dottrina (95) ne abbia mitigato il rigore e circoscritto l’applicabilità ai casi in cui esiste un notevole lasso di tempo tra l’inadempimento e la realizzazione del danno mediante una lettura combinata con l’articolo 1223 c.c. secondo cui "risarcibile è il danno conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento". In questo senso la giurisprudenza, a maggior tutela del contraente debole, ha unanimemente riconosciuto, dal punto di vista logico, che "è ammissibile il concorso tra la responsabilità contrattuale e quella extracontrattuale di fronte ad un medesimo fatto che violi contemporaneamente non soltanto diritti derivanti dal contratto, ma anche i diritti spettanti alla persona offesa indipendentemente dal contratto stesso" (96). Pertanto il mobbizzato potrà esercitare entrambe le azioni mediante il medesimo atto di citazione (rectius, ricorso) (97) avendo cura di farlo contemporaneamente e non cambiando la causa petendi (ossia il titolo o ragione giuridica della domanda (98) nel corso del giudizio o meglio oltre la prima udienza di trattazione ex articolo 183 c.p.c. (99). Ai sensi del 4 comma dell’articolo 183 in effetti nella prima udienza le parti possono soltanto precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate mentre è preclusa la mutatio libelli (100). Nel caso di mobbing realizzato da colleghi o superiori è possibile egualmente esercitare l’azione extracontrattuale ex articolo 2043 c.c. contro gli autori materiali ma anche quella contrattuale nei confronti del datore di lavoro. Rispetto a questi, si può invocare sia l’articolo 2087 c.c., che in questo utilizzo assume la connotazione di responsabilità oggettiva, che l’articolo 2049 c.c., in via alternativa o cumulativa (101). Riguardo all’azione ex articolo 2049 c.c. che sancisce la responsabilità indiretta del datore di lavoro, se ne evidenziano i significativi vantaggi per il mobbizzato per le seguenti ragioni: il danneggiato deve provare l’esistenza del rapporto di lavoro ed il collegamento tra il fatto dannoso del dipendente e le mansioni da questo espletate ma non un vero e proprio nesso di causalità, essendo sufficiente un rapporto di occasionalità necessaria nel senso cioè che l’incombenza disimpegnata abbia determinato una situazione tale da agevolare o rendere possibile il fatto illecito o l’evento dannoso anche se il dipendente abbia operato oltre i limiti delle sue incombenze, purchè sempre nell’ambito dell’incarico affidatogli così da non configurare una condotta del tutto estranea al rapporto di lavoro (102); sul datore di lavoro grava una rigida presunzione di responsabilità che non può essere smentita dall’eventuale dimostrazione di difetto di culpa in eligendo o vigilando quanto piuttosto dalla prova dell’ assoluta irriferibilità dell’evento alle mansioni lavorative o al ruolo rivestito dal mobber nell’azienda (103); infine sebbene l’unicità del fatto illecito dannoso per il terzo determini la solidarietà tra i vari soggetti obbligati, non è necessario per il danneggiato, una volta proposta l’azione di risarcimento contro il solo datore di lavoro, disporre l’integrazione del contraddittorio nei confronti del /i dipendente/i autori materiali (104) rispetto ai quali può in concreto esistere persino un problema d’individuazione (105). In conclusione, riguardo ai termini di prescrizione, atteso che "il diritto al risarcimento da fatto illecito si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il fatto si è verificato" ai sensi dell’articolo 2947 c.c. sarà opportuno per il danneggiato, ai fini del prolungamento dei termini, evidenziare che il fatto illecito integra il reato, o che il momento d’inizio della prescrizione coincide con la manifestazione dell’ultima componente del danno (106) o ancora qualificare la condotta di mobbing quale fatto lesivo permanente. In tema di competenza, invece, in considerazione dei vantaggi del rito, è acquisita in dottrina ed in giurisprudenza l’appartenenza della tematica mobbing alla competenza del Tribunale in funzione di giudice del lavoro (107). E ciò perché l’azione risarcitoria relativa è in qualche modo collegata al rapporto di lavoro il quale costituisce antecedente e presupposto necessario , non meramente occasionale, della situazione di fatto per la quale è invocata la tutela giudiziale (108) salvo il caso di esercizio dell’azione iure proprio da parte dei congiunti della vittima che ha la sua fonte esclusiva nella responsabilità extracontrattuale ex articolo 2043 c.c. 5.4. Problematiche processuali in tema di produzione e deduzione di prove. La gravità delle conseguenze della mancata prova Enunciati precedentemente i fatti costitutivi del diritto al risarcimento dei danni da mobbing da allegare, è opportuno occuparci della tematica delle prove, atteso che il giudice deve decidere iuxta alligata ac probata partium ex articolo 115 c.p.c. (109). Nel caso di specie i compiti prescritti dall’art 99 c.p.c. e 2697 c.c. risultano effettivamente molto gravosi ed in particolar modo in punto sussistenza sia degli atti integranti il mobbing sia del nesso di causalità (o concausa) tra le condotte lato sensu persecutorie e i danni all’equilibrio psicologico e/o psicofisico a carico della vittima (110). Teoricamente ogni tipo di prova è utilizzabile (documentale, testimoniale, peritale, presuntiva) ma in concreto l’interessato raramente può avvalersi di prove scritte ( unico campo sembra essere quello del demansionamento) mentre più spesso deve ricorrere alla prova per testimoni la cui attendibilità è spesso discutibile poiché molti colleghi temono le eventuali reazioni del "mobber" datore di lavoro (111) o alla prova induttiva ex articolo 2729 c.c. cioè agli indizi gravi, precisi e concordanti che, com’è noto, sono prove non vincolanti per il giudice (112). Si evidenzia (113) che, purtroppo, in generale, la giurisprudenza manifesta un certo scetticismo di fronte ad affermati casi di mobbing tanto da pretendere una prova rigorosa (114). E ciò sebbene la stessa giurisprudenza (115) abbia riconosciuto che in questi casi " la prova è particolarmente difficoltosa a causa di eventuali sacche di omertà sempre presenti o per altre ragioni" (116) e ne abbia consentito semplificazioni ritenendo ad esempio provato il nesso causale con il solo accertamento, a seguito di istruttoria, della condotta vessatoria, dolosa ma anche colposa, dell’insorta patologia in collegamento con il rapporto di lavoro e della circostanza che la lavoratrice non aveva mai avuto simili disturbi o patologie senza ricorso a perizie od altre prove. Mentre in ordine al quantum del danno il giudice può effettuare una valutazione equitativa, di fronte all’eccezione della mancata prova è costretto ad arrestarsi con conseguenze particolarmente pesanti per il lavoratore-vittima. In tema, si ricorda la sentenza 8 gennaio 2000, n 143 con la quale era stata riconosciuta la legittimità di un licenziamento per giusta causa per violazione del rapporto di fiducia conseguente ad accuse non provate di mobbing realizzato da un superiore gerarchico (117). I riflessi dell’esposto precedente giurisprudenziale sono molto pesanti: potrebbero inibire ab origine la decisione di molte vittime di adire la via legale poiché paradossalmente questa scelta potrebbe ritorcersi in danno laddove il giudice non riconosca le prove prodotte sufficienti . Sul tema è interessante segnalare il suggerimento fornito dal legale e dagli operatori della CISL di Pesaro in occasione del Convegno sul mobbing tenutosi in data 9 novembre 2001 consistente nel "crearsi prove scritte", obiettivo forse più facilmente realizzabile all’interno della pubblica amministrazione, ovvero nel predisporre e farsi protocollare volta a volta istanze di chiarimenti in ordine alle singole condotte vessatorie, aventi per contenuto una precisa e dettagliata descrizione delle modalità di tempo e di comportamenti per i quali si chiede adeguata giustificazione. 6. Il danno da mobbing Anche in questo campo, la molteplicità delle condotte integranti il mobbing comporta un’ampia gamma di situazioni risarcibili, anche cumulativamente, cosicchè risulta più appropriato parlare di risarcimento dei danni. Del resto, secondo il recente orientamento delle sezioni Unite della Corte di Cassazione (118) l’articolo 2043 c.c. costituisce una vera e propria clausola generale di responsabilità perché riconosce genericamente la risarcibilità "della lesione di un qualsiasi interesse rilevante per l’ordinamento" con attribuzione al suo titolare di diritto soggettivo al risarcimento e conseguente radicamento della giurisdizione ordinaria (119). Da un esame delle conseguenze pratiche emerge che il mobbing determina prevalentemente lesioni della professionalità del lavoratore, della salute intesa come integrità fisica e/o psichica nonché della personalità, dignità morale di questi con ripercussioni sulla sfera patrimoniale e non (120). Ciò premesso si ritiene opportuno effettuare una rapida rassegna dei principali tipi di danni risarcibili e delle relative problematiche. Di particolare interesse è, innanzitutto, la categoria del danno da demansionamento che presenta, invero, una struttura complessa (121), in certo qual modo ambigua posto che insieme all’elemento principale del danno alla professionalità figurano spesso il danno alla personalità, alla vita di relazione, il danno biologico alla salute nonché quello morale (122). In sede giurisprudenziale, in particolare, si rinviene una certa confusione terminologica e concettuale in tema di danni risarcibili per la professionalità del lavoratore (123) come facilmente si arguisce dal dispositivo di alcune sentenze che liquidano le somme per la dequalificazione senza distinguere in modo chiaro i titoli (124) tanto che in recenti pronunce (125) si è avvertita la necessità di precisare sia l’autonomia e la diversità del danno alla professionalità rispetto agli altri tipi sia il contenuto non necessariamente patrimoniale dello stesso. L’indeterminatezza dei confini tra i vari tipi di danno nell’ambito di questa particolare condotta di mobbing ha inevitabili ripercussioni anche in punto di prova e di valutazione del danno alla professionalità. Riguardo alla prova dei danni ad esempio la giurisprudenza è prevalentemente orientata a richiedere una prova anche in via presuntiva secondo l’id quod plerumque accidit ritenendo il danno al bene della professionalità in re ipsa, immanente alla condotta stessa (126) ma non mancano pronunce (127) nelle quali si afferma che il danno alla professionalità intesa "in senso obiettivo" (perdita di chanches di carriera o di impieghi più remunerativi) debba essere provato nel suo pregiudizio patrimoniale dal lavoratore. Sui criteri di risarcimento per contro, la giurisprudenza è attestata sulla determinazione equitativa del danno alla professionalità sulla base dei parametri della retribuzione mensile e della durata della dequalificazione poiché "il danno cresce secondo una linea di sviluppo progressiva, correlata sostanzialmente al decorso del tempo" (128) ma questi criteri non sono utilizzati in modo rigorosamente aritmetico né precludono l’utilizzo di ulteriori parametri per adeguare l’ammontare del risarcimento all’integralità del pregiudizio patito (129). Notevole importanza riveste altresì la categoria del cd danno biologico, comprensiva di qualsivoglia violazione dell’integrità fisica e/o psichica della persona, così come scaturita dalla lenta e progressiva evoluzione giurisprudenziale sviluppatasi in tema di danno alla persona in virtù della quale si è passati dall’iniziale consapevolezza dei limiti di una ricostruzione che attribuisce rilevanza alle lesioni personali soltanto sotto il profilo patrimoniale, al concetto di danno patrimoniale indiretto fino al riconoscimento del diritto alla salute in quanto tale, alla rilevanza giuridica e alla conseguente risarcibilità della lesione dell’integrità psicofisica in via autonoma e diretta (130). La Corte Costituzionale, tra l’altro, a superamento dell’angusto sistema civilistico bipolare fondato ex articoli 2043 c.c. e 2059 c.c. sulla dicotomia danno patrimoniale-danno morale, non solo ha affermato che rispetto ad una menomazione dell’integrità psicofisica sono configurabili tre tipi di danno sulla base della distinzione tra evento dannoso e pericoloso, identificato nel danno biologico, ed il danno-conseguenza concretantesi nel danno morale soggettivo e nel danno patrimoniale (131) ma ha evidenziato, altresì, la necessità di considerare il danno biologico nell’accezione più ampia cioè sia sotto un aspetto statico, di fatto lesivo sic et simpliciter, sia sotto un profilo dinamico cioè attento a tutte le conseguenze negative della lesione sulla vita quotidiana del mobbizzato (132) anche se ai fini del risarcimento è sufficiente anche la sola prova dell’aspetto statico. Rispetto al mobbing, il danno biologico si identifica in fisico ma anche e soprattutto in psichico (133). A prescindere dalle problematiche relative all’introduzione della definizione di danno biologico ex articolo 13 decreto legislativo 23 febbraio 2000, n. 38 e da quelle sollevate dal disegno di legge n. 4093 presentato al Consiglio dei Ministri il 4 giugno 1999 recante una nuova disciplina in tema di danno alla persona, le quali evidenziano la necessità di ridefinire i rapporti tra il "social security system" disposto per i danni patrimoniali ed il "tort system" per quelli biologico e morale (134), allo stato attuale la giurisprudenza in tema di prova è orientata a richiedere la prova della sussistenza della modificazione peggiorativa della salute (135) ovvero della patologia in caso di danno psichico (136) mentre in sede di valutazione del danno, in assenza di criteri normativi in proposito, è attestata su di una posizione per così dire intermedia tra l’iniziale criterio del triplo della pensione sociale adottato dopo l’entrata in vigore della legge 26 febbraio 1977, n. 39 (137) e l’equitativo puro (applicato solo il danno psichico temporaneo). In particolare, secondo la Suprema Corte (138) " i giudici del merito devono considerare nella liquidazione equitativa del danno alla salute le circostanze del caso concreto quali ad esempio la gravità delle lesioni, gli eventuali postumi permanenti, l’età, le attività espletate, le condizioni sociali e familiari del danneggiato ... o criteri metodologici suggeriti dalla dottrina o di diffusa applicazione giurisprudenziale ..." e cioè coniugare ad un’uniformità pecuniaria di base un certo grado di elasticità e flessibilità. Il danno morale, per contro, inteso sub specie di danno morale soggettivo, comprende il dolore, le sofferenze spirituali, i perturbamenti psichici (cosiddetto pretium doloris) subiti dalla vittima che siano causati, pena l’irrisarcibilità in caso contrario, da un fatto materialmente idoneo a costituire illecito penale giusta gli articoli 2059 c.c., l’articolo 185 c.p. ed il prevalente orientamento giurisprudenziale (139). Il risarcimento di tale danno spesso assolve una funzione prevalentemente afflittiva, quasi fosse una pena privata ed è perciò compatibile con altri tipi di tutela di carattere risarcitorio-rispristinatorio (140). Considerato il diverso onere probatorio a carico della parte interessata, è particolarmente importante distinguere il danno morale da quello biologico di natura psichica. Al riguardo secondo la fondamentale pronuncia della Corte Costituzionale in materia (141) "morale è il patema d’animo o stato d’angoscia transeunte, momentaneo" mentre il biologico-psichico consisterebbe nella psicopatologia permanente ma tale criterio è stato di recente messo in discussione (142) dalla giurisprudenza di legittimità la quale afferma una definizione di danno morale notevolmente differente da quella costituzionale - europea ispirata più al criterio del risarcimento integrale (143). Ad ogni modo, per provare il danno morale non è richiesto un particolare impegno poiché l’interessato può anche avvalersi di presunzioni semplici e addirittura, nel caso di lesioni personali o di danno biologico dimostrato, farne a meno atteso che l’esistenza è ritenuta in re ipsa ed il quantum spesso calcolato in misura percentuale rispetto alla somma liquidata a titolo di danno biologico (144). Riguardo al criterio di determinazione del danno, anche per il morale è individuato nella valutazione equitativa del giudice che, sebbene temperata dall’utilizzo in alcune sentenze dei criteri della liquidazione a punto di IP o della proporzionalità, conserva notevoli e giustificati spazi di discrezionalità per garantire congruo ristoro a lesioni spesso gravi. Di particolare interesse è, infine, la categoria del cd danno esistenziale che, recentemente riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità quale figura autonoma con la pronuncia Cass. 7 giugno 2000, n. 7713, consente di estendere la gamma dei pregiudizi risarcibili, con ciò colmando la zona grigia di confine tra il danno biologico ed il danno morale determinata dai molteplici interventi della Corte Costituzionale (145) a tutto vantaggio del mobbizzato. In effetti, al concetto di danno esistenziale è ricondotto qualsiasi evento che per la sua negativa incidenza sul complesso dei rapporti facenti capo alla persona, è suscettibile di ripercuotersi in maniera consistente e talvolta permanente, sull’esistenza di questa ovvero ogni forma di danno o lesione di un interesse giuridicamente rilevante per la persona risarcibile nelle sue conseguenze non patrimoniali (146). Ciò posto è evidente che qualsiasi condotta di mobbing può originare un danno esistenziale poiché la vittima viene lesa nella sua personalità, dignità ed integrità morale, nel diritto ad essere rispettata e non umiliata cioè in valori consacrati a livello costituzionale (147). Secondo una parte della dottrina (148) il danno esistenziale, presente "ogni qualvolta il lavoratore viene aggredito nella sfera della dignità senza che tale aggressione offra sbocchi per altra qualificazione risarcitoria" (149) costituisce addirittura il danno tipico da mobbing ricorrente in tutte le ipotesi e perciò da dover sempre risarcire posto che simili pratiche comportano in qualunque caso un’alterazione negativa della qualità della vita della vittima. Evidente è l’autonomia di questa categoria rispetto alle altre di danno sebbene la giurisprudenza in una recente pronuncia, in palese contraddizione con se stessa, abbia optato in sede di liquidazione del danno per una soluzione onnicomprensiva e riduttiva (150). Al contrario il danno esistenziale si differenzia dal biologico sia perché può esistere anche in mancanza di lesioni concrete al bene salute sia perché concerne l’aggressione di posizioni meritevoli di tutela alla luce del dettato costituzionale; dal patrimoniale perché, nonostante la sua natura di interesse rivestito di valore economico, non si ferma ai meri riflessi reddittuali del cd danno-evento; ancora dal morale perché non richiede comportamenti penalmente rilevanti, non s’identifica nelle lacrime, nel patema d’animo quanto piuttosto nel non poter più fare, nel dover agire altrimenti. Secondo tale prospettiva si rivela appropriata la definizione "teleologica" di danno esistenziale elaborata da autorevole dottrina (151) inteso come giusta reazione ai profondi cambiamenti subiti al di fuori dei danni patrimoniali. Quanto alla prova, in dottrina e in giurisprudenza si ritiene che il danno esistenziale, pur qualificato come lesione in sé, in re ipsa, deve essere specificamente provato nei suoi presupposti, per cui risulta conveniente per l’attore fornire la prova anche tramite testi, delle modificazioni esistenziali oggettive subite, per meglio orientare il giudice in sede di quantificazione del danno. Rimane, infine, confermato anche per tale tipo di danno, forse più che in altri contesti, l’utilizzo della valutazione equitativa ad opera della giurisprudenza perché più rispondente alla necessità di adeguare il quantum del risarcimento alle circostanze del caso. 7. Le proposte in sede legislativa Nonostante la perdurante mancanza di una normativa ad hoc, la vasta eco del fenomeno in esame non ha mancato di attirare l’attenzione in sede legislativa. Ne sono prova tangibile i molteplici disegni, progetti e proposte di legge (addirittura sette) (152) presentati in Parlamento, caratterizzati da finalità preventive, informative nonché repressive. Da un’attenta disamina delle proposte succedutesi nel tempo emerge, in realtà, una struttura comune alla maggior parte di esse, sulla quale s’innestano variazioni più o meno significative e/o opportune. L’esistenza di un denominatore comune, di una sorta di "scheletro"è, a parere di chi scrive, particolarmente rassicurante perché costituisce un solido punto di partenza in vista dell’emananda specifica disciplina. Invero, tre disegni di legge si differenziano nettamente dagli altri in ragione del loro contenuto esclusivamente penalistico: si tratta dei progetti n. 1813 intitolato "norme per la repressione del terrorismo psicologico nei luoghi di lavoro", n. 6667 contenente "disposizioni per la tutela delle persone da violenze morali e persecuzioni psicologiche" e n. 7265 "Disposizioni per la tutela dei lavoratori nell’ambito dei rapporti di lavoro" rispettivamente presentati alla Camera il 9 luglio 1996, il 5 gennaio 2000 e il 26 luglio 2000. In essi è previsto il reato di mobbing e la conseguente sanzione nonché una significativa elencazione dei comportamenti che integrano la nuova fattispecie delittuosa. Nel disegno di legge n. 1813, però, è stabilita un’unica ipotesi di responsabilità, sanzionata con la reclusione da uno a tre anni e l’interdizione dai pubblici uffici fino a tre anni mentre nel 6667 sono previste fattispecie differenziate, progressivamente aggravate in relazione alle conseguenze della condotta per il soggetto passivo (153). Il disegno di legge n. 7265, inoltre, si differenzia dai precedenti sia perché prevede in alternativa alla sanzione penale della reclusione, la multa variabile dai 5164,57 euro ai 20658,28 euro sia perché prescrive anche la sanzione della nullità per tutti gli atti e le decisioni che comportano variazioni di qualifica, incarico, mansioni o trasferimenti comunque connessi al reato di violenza psicologica. La scelta di una risposta "forte" al fenomeno, più apparente che reale perché i limiti edittali della pena consentono in taluni casi il patteggiamento ex articolo 444 c.p.p. e seguenti unitamente alla richiesta di sospensione condizionale della pena ex articolo 163 c.p. e seguenti è stata poi abbandonata negli altri progetti di matrice espressamente civilistica probabilmente in omaggio al principio del ricorso alla sanzione penale come extrema ratio. Negli altri progetti trovano ampio spazio finalità preventive ed informative assenti in quelli di marca penalistica. In tutti, persino nella proposta di legge regionale del Lazio del 14 marzo 2001 approvata senza modifiche nel mese di ottobre 2001, redatta nelle more della disciplina organica dello Stato in materia (ma non ancora promulgata), sono indicate la finalità e la definizione di mobbing, sia in forma generica sia esemplificativa, l’obbligo di porre in essere attività di prevenzione ed informazione anche mediante l’istituzione di organi paritetici, di sportelli anti-mobbing o della mediazione sindacale; nella maggioranza di essi, sono evidenziate l’applicabilità della disciplina a datori di lavoro pubblici e privati, l’irrogazione di sanzioni disciplinari ai danni del/i mobber/s o di chi denuncia il compimento di vessazioni inesistenti, la nullità degli atti discriminatori, le azioni di tutela giudiziaria e la scelta del criterio equitativo nella liquidazione dei danni. Nondimeno, accanto a tratti comuni, esistono differenze tra i vari progetti che si ritiene opportuno segnalare. Con riferimento ai soggetti attivi, ad esempio, il d.d.l. n. 4265 presentato al Senato il 13 ottobre 1999 indica i superiori, i pari grado, gli inferiori ed i datori di lavoro mentre il d.d.l. n. 6410 inoltrato il 30 settembre 1999 esclude gli inferiori in aperto contrasto con le acquisizioni in materia di psicologia del lavoro; (154) il d.d.l. n. 6410 elenca sì una serie di comportamenti rilevanti ma rinvia ad un decreto da emanarsi da parte del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali l’individuazione delle fattispecie più rilevanti (155); in tema di annullabilità di atti e di decisioni riconducibili al mobbing nel d.d.l. 6410 manca il riferimento all’articolo 2113 c.c. presente invece nel d.d.l. n. 4265; ancora in tema di pubblicità dei provvedimenti giudiziali nel d.d.l. n. 6410 si parla di informazione del provvedimento di condanna e non anche di quello d’assoluzione come si ritrova invece nel d.d.l. n. 4265. Ancora il d.d.l. n. 4313 presentato il 2 novembre 1999 si caratterizza per la previsione della cd condotta di strategia societaria illecita, per l’accertamento clinico affidato a consulenti e psicologi esterni, per l’istituzione presso la Camera di Commercio di uno sportello contro gli abusi nei posti di lavoro e per l’obbligo d’informativa al Ministero delle pari opportunità di atti di mobbing riconducibili a discriminazione sessuale, mentre è peculiare al d.d.l. n. 4512 l’istituzione di organi interni aventi come membri un rappresentante del datore di lavoro, uno dei lavoratori ed un esperto nominato dall’ASL competente per territorio. Orbene, nella prospettiva di emanare una disciplina organica ed unitaria per il mobbing, a parere di chi scrive, sembrerebbe opportuno adottare la struttura comune e selezionare le varianti più originali delle diverse proposte, guidati magari dai criteri suggeriti dalla risoluzione del Parlamento Europeo A 5 - 0283 /2001 (2001/2339 (INI) e da eventuali accorgimenti positivamente collaudati in sede di prassi. 8. Iniziative con
Data invio: 5/12/2009 19:40
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