19 gennaio 2007 alle 14:44 — Fonte: repubblica.it
Rischia il licenziamento il dipendente, che, preso dalla rabbia, si lascia sfuggire un insulto rivolto ad un superiore.
Lo ha sancito la Cassazione, confermando una sentenza della Corte d'appello di Napoli: i giudici di secondo grado avevano ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa di un uomo che, nel corso di una riunione sindacale nell'azienda presso cui prestava servizio come impiegato, si era dapprima lasciato andare ad uno scontro fisico con un collega e poi aveva insultato, definendolo ‘delinquente', il responsabile del personale. Nel ricorrere alla Suprema Corte, il dipendente aveva quindi rilevato che il suo comportamento andava inquadrato nel contesto della riunione sindacale (da lui promossa in relazione ad alcune doglianze sull'amministrazione dello spaccio aziendale), "normalmente caratterizzato da particolare vivacità e da un linguaggio non sempre misurato e proporzionato all'effettiva consistenza della controversia".
Di diverso avviso gli ‘ermellini' della sezione lavoro di ‘Palazzaccio, che, con la sentenza 1168, hanno rigettato il ricorso: "non emerge alcun errore logico o giuridico — scrivono i supremi giudici — nella valutazione fatta dalla Corte di merito", la quale "nel valutare la gravita' dell'offesa al dirigente ha osservato, da un lato, che l'episodio è avvenuto in presenza di numerosi impiegati e, dall'altro, che l'incidenza offensiva dell'epiteto deve essere valutata in relazione alle regole che disciplinano lo speciale vincolo esistente fra il lavoratore subordinato ed il suo superiore gerarchico".
La condotta complessiva del ricorrente, aggiungono ancora i giudici di Piazza Cavour, "appare ispirata ad un atteggiamento violento ed ingiustificato estrinsecatosi, nella prima fase, nell'iniziativa di aggressione verbale e nella successiva reazione a livello fisico, sia pure connotata da reciprocità , del tutto svincolate da motivazioni connesse al contenuto della riunione nel corso della quale sono state poste in essere; nella seconda fase, tale atteggiamento si è estrinsecato in una ingiustificata offesa rivolta ad un superiore oggettivamente estraneo al precedente diverbio". La Corte di merito, conclude la Cassazione, ha dunque correttamente applicato il principio della proporzionalità della sanzione in ordine alla sussistenza della giusta causa di licenziamento, motivando sulle ragioni per cui "la gravità del comportamento contestato rende adeguata la sanzione espulsiva".